Dare radici al presente. Il kosmos ciclico del Museo dinnanzi al teatro caotico del Mondo: il fenotipo della Pilotta farnesiana a Parma

Marco Cavalieri
Université catholique de Louvain, Président du Centre d'étude des Mondes antiques

 

Scripta Palatinus quaecumque recepit Apollo. Così Orazio ricordando quella che noi oggi definiremmo la pluridisciplinarità della bibliotheca ad Apollinis, spazio all’unisono ricettacolo librario, sede politica (la sala fungeva anche da Curia) e parte fondamentale del Museo (lato sensu) che la domus Augusti in qualche modo incarnava sulla sommità del Palatino. Ci piace partire da questa immagine di uno spazio cosmico – nel senso di ordinato dal logos apollineo – per riflettere circa il significato e la mise en scène a prospettiva plurima di un racconto museale che presenta apparentemente una storia caotica, ma che in una visione a posteriori, si può ricondurre a medesime esigenze in un mutare del tempo apparentemente rettilineo, ma sostanzialmente ciclico: insomma, platonicamente da eidos a phainomenon.

Incarniamo questa nostra riflessione, a monte di una riforma ministeriale che porrà in essere poli museali disseminati sul suolo nazionale, creando coaguli di cultura in auspicabile dialogo con territorio e nuances fruitive. Il punto di partenza è un Corridore architettonico, come quello vasariano tra gli Uffizi e Palazzo Pitti, ma questa volta siamo nell’ambito del cosiddetto “fungo farnesiano”, il Ducato, strappato nolente Carolo V, da una costola dello Stato Pontificio, e fortissimamente voluto da papa Paolo III Farnese per il figlio Pier Luigi. È evidente che il ducato sia quello di Parma e Piacenza, un tempo lembo visconteo in terra emiliana, ma dal 1545 fino al 1859, Stato sovrano di contenuta estensione, ma di notevole vitalità, anche culturale. Il racconto dell’ascesa farnesiana a Parma va di pari passo con quello della costruzione di una struttura architettonica che assolve nel tempo funzioni difensive, amministrativee culturali: un palazzo per certi versi assimilabile agli Uffizi medicei, ma più ambizioso, megalomane e costituito da un cantiere in continua trasformazione, sin dagli anni Ottanta del XVI secolo. Questa gigantesca ed incompiuta manifestazione di potenza laterizia, concepita per incutere timore nell’animo dei sudditi, soggezione in quello degli altri regnanti, è oggetto nel trascorrere rettilineo della storia evenemenziale, di una trasfigurazione per forma e funzioni tale da far perdere il senso dell’organicità spaziale, così come la concezione del gusto e dello stile dei tempi che lo avevano visto nascere. Il tracollo caotico del suo stesso esistere si toccherà nei bombardamenti alleati del 1944 che ne distruggeranno ampie parti, alcune, per insipienza umana, mai più integrate.

Un enorme moncone architettonico, con il suo carico di storia e di racconti culturali e di potere, dopo gli interventi restaurativi postbellici è ancora oggetto di un maquillage pseudo-estetico negli anni Novanta del XX secolo: in quest’occasione si porta a termine il totale isolamento del complesso dal tessuto connettivo urbano al quale esso da secoli, malgrado tutto, cercava di ancorarsi.

In questo palinsesto architettonico di macro- e microstoria, che tradizionalmente prende nome di palazzo della Pilotta (dal nome della pelota basca, attività ludica di origine spagnola molto di moda nel XVII secolo) la Modernità ha posto in essere la fucina stessa della cultura di quel territorio che nacque dall’idea nepotistica farnesiana: un complesso museale regionale e manieristicamente europeo al contempo, che racchiude, ormai da secoli, più forme dell’espressione umana: la Pinacoteca Nazionale di Parma, il Teatro Farnese, la Biblioteca Palatina, il Museo Archeologico Nazionale, il Museo Bodoniano e la sede del Dipartimento di Beni Culturali, Arte e Spettacolo dell’Università degli Studi.

Fin qui la storia e les données. Ora il challenge di una comunicazione culturale che debba far fronte ai numerosi livelli e modelli di fruizione del visitatore moderno, il quale si trovi a dialogare con un Polo Museale polifonico giacché polimorfo nella sua formazione storica e missione culturale contemporanea.

In questo tempo cronologico, ove il cambiamento e l’evoluzione (non sempre darwiniana) hanno retto le magnifiche sorti e progressive della Pilotta, una dimensione di ciclicità può ravvisarsi in una riflessione che parta da quanto già all’inizio del XIX secolo l’illuminata politica del piccolo Ducato, allora retto da Maria Luigia d’Asburgo, aveva previsto per una delle branche del sapere locale, il ducale Museo Archeologico. Il regolamento del Museo prevedeva una mission ben precisa: in un decreto della sovrana del 24 ottobre 1817 il Museo di Parma e gli scavi di Veleia, oltre che essere dichiarati “di generale utilità per lo Stato, siccome fonti di pubblica istruzione”, sono concepiti quali Istituti aperti a “qualunque dei sudditi e in particolar modo a que’ giovani che [...] concorrono in Parma per istruirsi nelle scienze nella ducale Università”. Un provvedimento di matrice tardo-illuministica che cambia la visione e la funzione del Museo: dal luogo di eburnea cultura esso diviene uno vero strumento di educazione.

È evidente che tale impostazione educativa esprime le esigenze dei tempi in cui fu posta in essere, ma certo una riflessione sulla contingenza che ci occupa il testo citato la offre: il rapporto biunivoco tra spazio museale e territorio, come due entità, poli di equilibrio nell’offerta culturale e nella espressione di quel racconto polifonico che non può prescindere dal contesto in cui esso è stato inventato o inserito per la sua “pubblicazione”. Insomma non può esistere Museo non in dialogo con un “suo” territorio, sia esso geografico o culturale. Per il Museo di Parma, nella fattispecie storica, il territorio era costituito da suo più importante vivier di materiali archeologici, il piccolo municipium romano di Veleia (situato nell’Appennino piacentino).

In altre parole, come poter far dialogare in un suono che sia orchestrale un patchwork di Istituzioni culturali che hanno una storia formativa diversa e che per ora hanno convissuto o dialogato solo per condizione di prossimità spaziale? Per tentare di rispondere, l’orizzonte argomentativo deve essere assestato, a nostro parere, sul concetto di un radicamento della cultura tale da fissare il presente sulle solide basi dell’identità passata, fondando il tutto in una dimensione di ciclicità dell’esperienza culturale; ma dal caos in-comunicativo al kosmos attuativo non si può giungere se non attraverso una visione platonica della materia fenomenica, quale manifestazione dell’eidos. L’idea è quindi, quella di un polo unico per funzionalità, ma modulabile per percorsi, linguaggi, targets fruitivi e tempi di narrazione. Una sorta di Museo diffuso, su uno spazio che è quello di un grandioso contesto architettonico, ed in un tempo che è quello di un’identità che assomma, senza priorità, un Mondo caotico categorizzato nel cosmo dell’Archeologia, della Pittura, della Musica e della Parola e della Stampa, costituendo il pentadattilo della Cultura locale in dialogo internazionale per contenuti e mezzi comunicativi.

Insomma un Museo che rifletta il Mondo ma che da questo si distanzi per formule comunicative, percorsi e finalità chiare e definite: in tal senso, lo stesso palazzo della Pilotta, sorto originariamente per uso diverso, porrebbe in essere nell’utilizzo culturale e museografico una nuova forma olistica di racconto di se stesso (per altro non scevra da conseguenze di salvaguardia dell’immobile) utile a porre in essere diversi tempi del racconto, a partire dal contenitore stesso delle opere d’arte mobili. “L'edificio quindi, da neutro contenitore in grado di garantire, attraverso l'impiego di moderni apparati tecnologici, una conservazione ottimale, si colloca in rapporto dialettico con gli oggetti esposti e diviene esso stesso momento importante del percorso culturale”.

Un tempo da raccontare, quindi, attraverso un’integrazione di linguaggi che, mediati da percorsi diversi, stimoli e segnali, si tuteli al contempo dall’effetto spettacolare nel difficile tentativo di raggiungere il delicato punto di equilibrio fra didattica e gioco, fra volgarizzazione e rigore scientifico, fra spettacolarità e senso critico, facendo uso di un costante richiamo alla ciclicità del tempo del racconto che da classicistico si fa Classico.

 

 

giulia osti410