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Definizione problematica 

Sin dalle sue origini l’archeologia è sempre stata più o meno avvertita nel cogliere – almeno superficialmente e, spesso, anche con eccessi interpretativi di tipo ritualizzante o etnico-culturale – alcune attestazioni macroscopiche di trattamenti funerari considerati devianti, quali, ad esempio, la localizzazione di defunti in contesti abitativi con o senza deposizione formale (come nel caso di resti scheletrici umani rinvenuti all’interno di pozzi, caverne o in altre situazioni apparentemente prive di una codifica funeraria), la pratica del seppellimento dei cadaveri in posizione prona o anormalmente contratta, l’assenza/asportazione/dislocazione intenzionale di distretti scheletrici dotati di peculiare rilevanza simbolica come il cranio, l’utilizzo di dispositivi particolari per l’immobilizzazione dei defunti, le fosse collettive legate a eventi bellici o a pandemie, i sacrifici umani, le pene capitali ecc. Ciò che costituisce una novità sul piano epistemologico, quindi, non è l’individuazione in sé di morti e/o sepolture anomale o devianti, ma la sistematizzazione metodologica e teoretica del loro riconoscimento e della loro interpretazione (su questi temi cfr. in generale Rittershofer 1997, Murphy 2008, Sepolti tra i vivi 2008, Sepolture anomale 2010). Sul piano meramente sociologico, inoltre, il confronto con la “devianza” e, più in generale, con la “percezione della devianza” presuppone l’esistenza di una rappresentazione collettiva codificata della “normalità”, possibile solo nell’ambito di comunità relativamente complesse, in grado, ad esempio, di elaborare un’opposizione concettuale netta tra spazio urbano e spazio funerario e, al tempo stesso, di definire norme e ruoli sociali attraverso i quali, in un certo senso, determinare o meno un destino di emarginazione (nella vita e/o nella morte) o, anche, di infliggere o provocare la morte stessa, in ossequio a credenze condivise o per ripristinare l’“ordine” infranto da un comportamento o da una condizione fisica o mentale ritenuta aberrante.

Negli ultimi anni, sul piano dell’ermeneutica archeologica, l’affinamento dei metodi di scavo e di analisi – in particolare per tramite della bioarcheologia e dell’archetanatologia (Duday 2006) – combinato con i risultati dell’approccio relativistico, semiotico e contestualizzante della critica postprocessuale hanno consentito di cogliere non solo l’estrema permeabilità simbolica del gesto funerario ma anche tutte le sue anomalie ed eccezioni, dalla “negazione” psicologica e comportamentale del lutto fino all’estremo annichilimento materiale del cadavere nella “non sepoltura” e nel suo vero e proprio “rifiuto”.

Le radici antropologiche di quest’ultimo atteggiamento sono state assai ben delineate da A. Favole, soprattutto per quelle civiltà in cui, a fronte di una gestualità funeraria codificata e condivisa, la negazione della sepoltura si configura come una scelta discriminante, strettamente legata alle connotazioni sociali, identitarie o, anche, biologiche del defunto, in relazione alla sua età, sesso, religione, origine etnica, salute, condizione etica o mentale e, in generale, a tutti quegli attributi che lo rendono “diverso” rispetto al sentimento prevalente di umanità\civiltà: «Storicamente ed etnograficamente, il “rifiuto del cadavere” sembra dunque riservato a individui che vengono collocati al di fuori dei confini dell’umanità o perlomeno della comunità: in quanto portatori di una radicale differenza etnica, come nel caso dei genocidi; in quanto ritenuti estranei alla società civile o religiosa, come nel caso dei “giustiziati”, degli eretici e dei suicidi nell’età medievale o ancora dei pazzi e dei criminali in età moderna, quando i loro cadaveri forniranno la materia prima per gli studi anatomici [...]; e ancora, in quanto non fanno ancora parte dell’umanità in senso proprio, come nel caso dei bambini non iniziati. In tutte queste situazioni, i cadaveri possono essere assimilati a rifiuti che, come tali, sono abbandonati, gettati via, riciclati, venduti. Il rifiuto sembra configurarsi insomma come l’eccezione che conferma la regola: laddove vi è piena attribuzione di humanitas all’individuo, l’attenzione ai resti si configura come una necessità inderogabile. Viceversa, il rifiuto dei cadaveri appare come un’evasione, spesso assai pericolosa, dai confini dell’umanità.» (Favole 2003, p. 30).

Un trattamento funerario discriminato si configura, dunque, come tale nel momento in cui l’individuo che ne è contraddistinto viene ritenuto estraneo alla comunità e, quindi, anche ai suoi “meccanismi rituali”. Tale constatazione necessita, ovviamente, di un’ulteriore contestualizzazione volta, da un lato, alla definizione dell’habitus sociale della realtà in esame e, dall’altro, all’identificazione delle ricorrenze rituali che contraddistinguono all’interno di quella medesima civiltà il trattamento funerario dei defunti, per verificare, ad esempio, se la loro assimilazione a ciò che si tende a considerare generalmente (e, spesso, dispregiativamente) come un “rifiuto” vada intesa effettivamente come un atteggiamento punitivo o se, invece, debba piuttosto essere ritenuta una prassi ritualmente codificata e accettata, come sono andate evidenziando in parallelo negli ultimi decenni la riflessione antropologica e quella archeologica, soffermandosi sull’evoluzione stessa del concetto di “rifiuto/scarto/frammento” e sul suo progressivo relativizzarsi nel corso del tempo. L’interprete si trova dunque ad agire su almeno due livelli distinti, la combinazione dei quali rappresenta l’unico metodo efficace per individuare le eventuali deviazioni dalla norma comportamentale e, possibilmente, per tentare di spiegarne le ragioni.

Talvolta i due livelli possono coincidere per cui a un trattamento differenziato in vita ne corrisponde uno più o meno speculare in morte. È chiaro che, per quelle civiltà senza scrittura o fonti alternative a quelle archeologiche, la dimensione funeraria è l’unica che può consentire di accedere in modo sufficientemente perspicuo anche alla sfera del quotidiano. Su quest’ultimo aspetto verte il dibattito interpretativo tra l’approccio tipicamente isomorfico di matrice processuale e quello tendenzialmente relativistico postprocessuale. Se, tuttavia, l’analisi si sofferma solo sulla sfera della morte, il discorso nel suo insieme risulta complessivamente meno aleatorio, lasciando a un livello di decodifica superiore l’eventuale trasposizione anche nella sfera quotidiana di un atteggiamento deviante archeologicamente e/o etnograficamente riscontrato in quella funebre. Il tutto, ovviamente, a patto di non trarre dalle pratiche o dagli usi funerari ricorrenti nella nostra civiltà il punto di riferimento per l’individuazione del “discrimine” o della “devianza” nelle comunità del passato.

L’abilità, anche in questo caso, consiste nell’esatta ricomposizione della “stratigrafia” dei gesti e nell’individuazione o meno della loro intenzionalità. Se, infatti, è abbastanza chiara la volontarietà che può celarsi in una deposizione secondaria a cremazione (qualora essa, naturalmente, sia il frutto di un gesto funerario consapevole), risulta ben più difficoltoso riconoscere le dinamiche formative di una inumazione secondaria, ancor più se multipla o collettiva, soprattutto in quei casi in cui l’archeologia si trova di fronte a un quadro incompleto, di cui è noto soltanto l’atto terminale e di cui è possibile cogliere solo a tratti la complessità.

Ciò vale, naturalmente, ancor di più in quei casi in cui l’anomalia predomina sulla norma e la ripetitività solitamente sottintesa al gesto rituale si sostanzia per tramite di una sua più o meno diretta inversione, dando luogo a ciò che la critica, ultimamente, ha cominciato a definire «deviant burial» o «sepoltura anomala». Ma anche la chiave per la decodifica della “devianza” o della vera e propria assenza intenzionale di una deposizione formale passa, necessariamente, attraverso l’individuazione della presenza o dell’assenza di “gesti” e la ricostruzione della loro inequivoca casualità o volontarietà: «Le geste funéraire n’est que la traduction matérielle du rite, et le geste seul nous est accessible.» (Duday et Alii 1990, p. 44).

Uno degli obiettivi su cui si incentra la presente sessione è, dunque, quello di provare ad aprire la strada a una maggiore consapevolezza critica in merito a uno degli aspetti più complessi dell’archeologia funeraria, quello in cui i codici della ritualità vengono intenzionalmente posti in discussione e le logiche che solitamente presiedono alle dinamiche della morte appaiono invertite o, più o meno deliberatamente, ignorate. Come si è detto, tali condizioni possono dar luogo a varie possibili forme di “devianza”, spesso tra loro interrelate, ciascuna delle quali, soprattutto nell’ultimo decennio, è stata oggetto di puntuali approfondimenti da parte di specifici filoni di studio, volti ad approfondire i modi in cui tale atipicità veniva percepita e, più o meno conseguentemente, riflessa nella sepoltura in relazione alle circostanze della morte, alle caratteristiche del defunto o a quelle del rito (Nizzo 2015).

L’“anomalia” del trattamento, infatti, poteva essere totalmente svincolata dall’identità e dalla condizione dei defunti, come conseguenza di fattori accidentali esterni (guerra, epidemie, omicidi, incidenti, malattie ecc.), tali da scardinare le logiche del rito dando luogo, per necessità o, anche, per scelta, a comportamenti anomali (la “morte atipica”).

Nella seconda fattispecie l’“anomalia” può invece contraddistinguere isomorficamente il defunto nella vita come nella morte (“defunto atipico”), per effetto di una serie di caratteristiche innate che, agli occhi della comunità, lo rendevano “diverso”, facendo sì che fosse “discriminato” anche nella sfera funeraria; in altri casi, invece, tale percezione poteva essere limitata alle sole fasi terminali della vita, per la comparsa di connotati “diversificanti” tali da escluderlo, concettualmente e materialmente, dalla sfera comunitaria, fino a decretarne la stessa uccisione; una circostanza, quest’ultima, che poteva aver luogo anche in contesti connotati sacralmente e tali da consentire di assimilare la vittima a un “capro espiatorio”.

L’ultima categoria, infine, è quella in cui i tratti dell’anomalia sono prevalentemente assorbiti dal rito (“rito atipico”), in forme spesso esplicite e tali, comunque, da lasciar presupporre l’esistenza di una “ritualità deviata”, palesemente mortificante, connessa a credenze e superstizioni che, spesso, potevano agire all’esterno dei formalismi della cerimonia funebre, dando luogo a interventi postdeposizionali finalizzati a reprimere l’influenza nefanda del morto. In molti casi la necrofobia che li contraddistingue poteva essere connessa a fattori comuni alle due categorie precedentemente citate, ma non mancano episodi in cui tali atteggiamenti risultano completamente disgiunti dai connotati specifici del defunto o della sua morte, per trovar spiegazione nella paura esercitata dalla morte stessa e dai fenomeni tafonomici ad essa correlati, costringendo i sopravvissuti a macabri interventi profilattici sul cadavere. In questa fattispecie, seppure un po’ forzatamente, possono essere fatte rientrare anche tutte quelle circostanze di “disturbo\intervento” estranee ai meccanismi funerari codificati dal rito, come, ad esempio, la necromanzia, la necrofilia e, in generale, tutte quelle forme di “dialogo/interazione” con i morti che divergono dalle costumanze codificate nella società oggetto di specifica osservazione.

 

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