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Definizione problematica

«L’attenzione rituale che universalmente circonda i cadaveri (e che pare connessa alla stessa origine filogenetica dell’essere umano), nasce dal fatto che essi sono “resti” di umanità e non semplici residui organici. Preparandosi a prendere congedo dai corpi, la società si trova a dover fare i conti con quella humanitas evanescente e residua che caratterizza i resti. Se in vita gli esseri umani “incorporano” cultura attraverso operazioni antropopoietiche di natura estetica, rituale o quotidiana, la morte minaccia di porre fine a questi interventi, collocando i corpi in una sorta di limbo antropologico, dando origine alla categoria liminare dei resti, sospesi tra cultura e biologia, tra organico e inorganico, tra presenza e assenza, tra umano e post-umano. Gli investimenti culturali e affettivi di cui i corpi sono oggetto in vita non si dissolvono del tutto al sopraggiungere della morte: nei resti risuona ancora, anche se in dissolvenza, l’eco dell’umanità in essi scolpita.» (Favole 2003, p. 22).

Il brano citato condensa in sé i risultati di una più ampia riflessione che, a partire dai primi anni ’90, si è andata sviluppando in Italia in merito all’interpretazione dei processi di «antropo-pòiesi», ossia di “costruzione sociale” della persona, in particolare ad opera dell’antropologo Francesco Remotti e della sua Scuola. Tale questione si lega indissolubilmente al dibattito sul concetto stesso di “identità” sul quale si è andata concentrando la critica antropologica negli ultimi tre decenni, nel tentativo, soprattutto, di emanciparsi dalle barriere culturali ed etnocentriche che ci impediscono di coglierne l’essenza in una prospettiva definibile, finalmente, “postcoloniale”.

Tra gli apporti maggiormente innovativi della riflessione antropologica italiana sul tema della costruzione sociale dell’identità vi è, senza dubbio, quello della sua estensione concettuale alla “sfera della morte”, con l’inclusione nel processo antropopoietico della fase della “vita” che si estende oltre l’esperienza terrena, dando luogo a quella che Remotti, integrando le teorizzazioni di Favole, ha definito «tanato-metamòrfosi» («Tmm», la «trasformazione culturale» dei corpi e degli spiriti dei morti) e ha inscritto, con l’«antropo-pòiesi» («Ap», «gli interventi, consapevoli o meno, con cui si foggiano gli individui viventi», «non solo i loro corpi, ma anche le loro menti, le loro emozioni, il loro comportamento»), nella «categoria generale» dell’«antropo-metamòrfosi» («Amm») (Favole 2003, Remotti 2006a). Per Remotti la «tanato-metamòrfosi», presupponendo un’intenzionalità esplicita, si pone a un livello concettualmente e simbolicamente più “significativo” (o, meglio, “espressivo”) rispetto all’«antropo-pòiesi», poiché «una società può nascondere i suoi obiettivi e i suoi procedimenti antropo-poietici (Ap), tenendoli celati nelle pieghe della vita quotidiana, ma le operazioni di tanato-metamòrfosi (Tmm) appartengono necessariamente al piano delle progettazioni consapevoli (anche se la consapevolezza può non riguardare presupposti, obiettivi profondi, implicazioni e controfinalità di queste operazioni)» (Remotti 2006a, p. 6).

Tale ricostruzione trova alcuni dei suoi presupposti più o meno diretti nelle teorizzazioni dell’antropologo A. Appadurai, cui si deve l’attribuzione di una “vita sociale” a realtà inanimate e, quindi, conseguentemente, anche a quella che può essere considerata la fattispecie “materiale” per eccellenza dell’umanità: il “cadavere” o, più in generale, il “corpo”, vivo o morto che esso sia. Sulla base di tali acquisizioni il “corpo” cominciava a essere percepito non più come una semplice realtà materiale, delimitata e circoscritta, quanto piuttosto come una “frontiera” fluida (nel senso barthiano), un costrutto identitario dai contorni sfumati, sospesi tra la sfera cognitiva della “percezione” e quella culturale e sociale della “rappresentazione”.

Come ha ben evidenziato Favole nel brano citato, in tale “intreccio” il cadavere, condensando in sé, simultaneamente, la condizione umana con quella materiale, si trova a rappresentare non solo la sintesi estrema di un’esperienza terrena ma anche il prodotto concreto di un lungo processo antropopoietico, la cui realizzazione può protrarsi ben oltre l’estinzione della componente individuale che in origine lo aveva connotato e che la morte, come già Hertz aveva intuito, con le sue metamorfosi biologiche rischia di compromettere per sempre, cancellando con la corporeità anche il suo «essere sociale».

Perché ciò non accada e il cadavere possa, in un certo senso, divenire anch’esso un prodotto della cosiddetta “cultura materiale” – conservando, quindi, la sua “connotazione sociale” – è inevitabile e necessario un confronto con l’aspetto organico della sua essenza, che fa sì che il corpo, indipendentemente dalla volontà umana, sia soggetto a trasformazioni naturali che, in assenza di fattori ambientali eccezionali, ne alterano e minacciano irreparabilmente l’aspetto e la consistenza, fino ad annullarlo del tutto per tramite di quella che Favole e Remotti hanno definito, assai opportunamente, «tanato-morfòsi» («Tm»), ossia «i processi di ordine naturale che aggrediscono il corpo con la morte».

La principale novità dell’approccio di F. Remotti e della sua Scuola consiste appunto nell’analisi dettagliata delle molteplici valenze culturali insite nei processi di «tanato-metamòrfosi», a partire dalla quale è divenuto possibile sistematizzare e categorizzare concettualmente i principali atteggiamenti conseguenti alla morte e al “problema” del trattamento dei cadaveri di cui vi sono attestazioni a livello storico ed etnografico.

Rielaborando su basi antropologiche l’intuizione filosofica heideggeriana del «Dasein» e scremandola da alcuni suoi aspetti assolutistici, sin dal 1993, Remotti evidenziava le molteplici analogie esistenti tra la percezione sociale dello spazio e dei luoghi/edifici, da un lato, e quella del corpo, dall’altro; una analogia che, peraltro, traspariva anche a livello linguistico, per tramite di concetti semanticamente polisemici come quello – ben noto all’antropologia – di «habitus» («“aspetto, forma del corpo”, “atteggiamento, disposizione, carattere”, “abito”, “maniera di vestire, abbigliamento”»), derivante dal verbo «habito» (un frequentativo del più comune «habeo»), le cui principali accezioni consistono nel «“soler avere o tenere”» e «“abitare, dimorare”» (Remotti 1993, pp. 32 ss.). Attraverso l’indagine approfondita del nesso luoghi/corpi «intesi come oggetti attraverso cui si esprime tanto la cultura quanto il potere», Remotti perveniva dunque all’enucleazione di un insieme di tre categorie le quali, chiamando in causa «il tema del tempo», risulterebbero comuni a entrambi gli estremi dell’analogia: «i) “Ciò che scompare”. ii) Ciò che rimane. iii) Ciò che riemerge.» (Remotti 1993, p. 76).

Applicata alla corporeità tale classificazione sintetizza efficacemente quelle che sono per Remotti le strategie antropopoietiche relative al trattamento dei cadaveri e al «controllo culturale della putrefazione», soprattutto per quel che concerne l’opposizione di base tra il «vedere “scomparire”» e il «fare “rimanere” forme di umanità». Entro queste due alternative per Remotti si espletano le principali strategie culturali e comportamentali attraverso le quali ci si confronta con la morte e, nella fattispecie, con le sue ineluttabili contingenze biologiche; un aspetto che diventa ancora più esplicito nel momento in cui il cadavere in questione è quello del «sovrano» e la “scelta” tra l’una e l’altra opzione prefigura il modo in cui può essere intesa la trasmissione del potere politico e/o la concezione stessa dello Stato. Di fondo, naturalmente, vi è il problema del concetto di “identità” poiché, come evidenzia Remotti: «Nel momento in cui le varie società decidono che cosa far scomparire e in che modo, esse decidono circa la propria identità. E quando nella categoria dello scomparire troviamo – com’è inevitabile – il problema della morte e quello del trattamento dei cadaveri, il senso dell’identità si fa particolarmente acuto, giacché la morte è l’evento che maggiormente pone in causa l’identità (sociale, oltre che individuale). [...].

Per definire “chi siamo?” abbiamo bisogno di stabilire una qualche distanza (una qualche differenza) rispetto a coloro che ci hanno preceduto, così come abbiamo bisogno di stabilire una qualche continuità. Continuità e discontinuità rispetto al passato sono ingredienti o fattori indispensabili per la costruzione dell’identità» (Remotti 1993, p. 77 e 87).

Non è difficile comprendere come tali riflessioni siano di importanza essenziale anche in una prospettiva archeologica.

L’indagine antropologica condotta da Remotti dimostra, inequivocabilmente, come il focus interpretativo debba essere spostato dalla mera registrazione/osservazione del rituale funerario in sé alle sue risultanze “culturali”, nei termini precedentemente categorizzati, laddove ciò sia, naturalmente, possibile e a partire dalla consapevolezza che la scelta di «cosa debba scomparire e che cosa rimanere, e come queste due operazioni possano e debbano combinarsi tra loro, sono temi su cui ogni società non finisce mai di riflettere» e che «quando si parla di “costruzione” dell’identità [...] non si deve ritenere che essa sia assimilabile a un edificio che ogni società – e ogni generazione al suo interno – costruisce in modo definito (e tanto meno definitivo). “Costruzione” dovrebbe invece trasmettere l’idea del continuo farsi e disfarsi, dell’insoddisfazione e del disagio che si avverte a ogni affermazione di identità, della necessità di riproporre in modi sempre diversi le tesi sulla propria identità. La costruzione dell’identità è infatti contrassegnata da una grande e invincibile precarietà» (Remotti 1993, p. 82 e 87; sulla questione cfr. più recentemente: Remotti 2004, Favole, Ligi, Viazzo 2004, Remotti 2008).

Sin dal 1977 E. Leach aveva mostrato chiaramente agli archeologi convenuti a un importante seminario interdisciplinare organizzato da M. Spriggs come la domanda da porre nel confrontarsi con la percezione della morte in altre culture non vertesse sulle caratteristiche specifiche delle loro sepolture quanto, piuttosto, sull’opposizione di fondo tra pratiche che potevano prevedere o non prevedere il ricorso a una sepoltura formale (Leach 1977). L’approccio antropologico alle pratiche funebri si rivela, in tal senso, nettamente distinto da quello archeologico, per il semplice fatto di essere in grado di documentare per tramite dell’osservazione diretta realtà o atteggiamenti privi di una consistenza materiale significativa ma, spesso, di rilevanza pari o addirittura maggiore rispetto a quelli destinati a lasciare qualche traccia tangibile sul terreno. L’esistenza di anomalie demografiche nella composizione dei sepolcreti e/o nella loro rappresentatività, tuttavia, può rivelare anche all’archeologo, almeno a partire da presupposti “negativi”, modalità nel trattamento dei resti funebri volte a privilegiarne (più o meno consapevolmente) la “scomparsa” piuttosto che la “permanenza”.

Ciò presuppone, naturalmente, una conoscenza approfondita delle modalità attraverso le quali una determinata cultura può affrontare o meno il problema della gestione dei “resti di umanità”, come ha ben evidenziato di recente A. Favole, optando per varie alternative correlate ai principali intenti che possono presiedere alle più comuni forme di «controllo culturale della putrefazione» le quali, traendo origine da una esigenza biologicamente ineludibile, possono essere, dunque, categorizzate entro un «numero limitato di scelte», corrispondenti a «differenti modalità concrete di affrontare l’inevitabile disgregazione dei corpi morti, senza particolari riferimenti ai significati e all’elaborazione rituale di cui ogni società circonda questi interventi» (Favole 2003, pp. 38-39).

L’analisi viene in tal modo traslata dalla mera osservazione dei risvolti materiali delle pratiche funebri (inumazione, incinerazione, mummificazione ecc.) alla sfera concettuale degli scopi che attraverso di esse si intende conseguire (lo scomparire, il rimanere e il riemergere remottiani), dal “grado zero” del rifiuto del cadavere, alle tecniche più complesse ed evolute per la sua conservazione, tali da negare anche l’apparenza stessa della morte (mediante processi complessi quali la mummificazione o la criogenizzazione). Sul piano contenutistico ciò determina, a nostro avviso, una frattura ineludibile rispetto alle tradizionali concezioni di ascendenza storico-culturale, ancora oggi spesso chiamate in causa, in virtù delle quali la scelta del rito viene variabilmente ricondotta a preconcetti fattori etnici e/o a un malinteso “diffusionismo” culturale/rituale:

«Il trattamento del cadavere si configura come una risposta culturalmente organizzata all’intrinseca ambivalenza dei corpi morti. [...]

A partire da questo schema si può osservare come le scelte che le società compiono in materia di trattamento del cadavere non siano quasi mai esclusive. Anche se in aree culturali e in momenti storici particolari può predominare l’una o l’altra di queste forme, per lo più è impossibile identificare una società con una soltanto delle categorie indicate. [...]

L’identificazione tra una società e una precisa modalità di affrontare la putrefazione nasce forse dall’assunto – assai comune in antropologia come in altri ambiti del sapere occidentale – secondo cui le culture si caratterizzano per sistemi di credenze e pratiche alquanto omogenee e coerenti, ma non trova riscontri nell’analisi etnografica.

Se è possibile sintetizzare in uno schema i tipi di intervento sul cadavere, si rivela oltremodo difficile (e anzi impossibile) classificare le società in base al modo in cui trattano i corpi dei morti. [...] L’evento morte invita a gettare lo sguardo su come altri, in altri mondi, affrontano il limite della disgregazione: come se davanti all’orrore della dissoluzione dei corpi – suprema negazione della natura culturale dell’uomo – non si potesse fare altro che dare un’occhiata ad altri contesti. Inoltre, la celebrazione di un rito funebre costituisce un’ottima occasione per affermare differenze all’interno della società (ricchi e poveri, uomini e donne, capi e gente comune, bambini e adulti ecc.). Anche se non si può certo negare che vi siano pratiche preferenziali di trattamento dei corpi, è tutto sommato errato o per lo meno molto semplicistico dire che gli indiani bruciano, i popoli mediterranei seppelliscono, gli antichi Egizi imbalsamavano.» (Favole 2003, pp. 40, 44).

Come ha evidenziato più di recente lo stesso Remotti, le strategie del controllo culturale della putrefazione possono essere ulteriormente categorizzate a seconda che esse presuppongano un «rifiuto» o una «accettazione» di tale processo biologico e si pongano o meno in continuità con il «lavoro antropo-poietico esercitato in vita» (nell’ambito più generale della cosiddetta «antropo-metamòrfosi»), consentendo o meno la sopravvivenza (più o meno prolungata nel tempo) di quelle «forme di umanità» che caratterizzano potenzialmente ogni identità corporea (Remotti 2006a).

Nella ricostruzione remottiana la putrefazione costituisce soltanto il momento centrale del più ampio processo di «tanato-metamòrfosi» («fase ii»), preceduta da una fase di «pre-decomposizione» («fase i») e seguita da una di «mineralizzazione» («fase iii»).

Mentre le fasi ii e iii prevedono una evidente azione biologica di «tanato-morfòsi» che può combinarsi o meno con interventi culturali di «tanato-metamòrfosi», la i può porsi apparentemente in continuità con la vita («fase 0»), estendendosi «tra il momento in cui l’individuo esala l’ultimo respiro e il primo apparire di segni (visivi e/o olfattivi) della putrefazione». Si tratta dunque di un periodo che può ovviamente variare in durata «in base alle diverse condizioni climatiche, tecnologiche e culturali» ma che risulta comunque «di notevole rilievo, sia sotto il profilo concettuale, sia sotto quello operativo».

La documentazione etnografica richiamata da Remotti mostra, infatti, come in questa fase possano aver luogo diversi atteggiamenti, spesso consistenti in «finzioni di vita», attraverso le quali si cerca variamente di “perfezionare” il momento del commiato e/o di predisporre il defunto alle sue “trasformazioni” future (materiali e concettuali): «la fase i è un momento, breve e affannoso, di conservazione di forme e, nel contempo, di preparazione, di predisposizione, per i passaggi futuri, prima che sopraggiungano, inesorabili, i segni della putrefazione. Si è propriamente in una fase di transizione, ed è significativo vedere come le culture oscillino perciò tra l’esigenza (o l’illusione) di mantenere una “parvenza” di vita e, invece, il riconoscimento di una fine irrimediabile».

Ciò può presupporre anche interventi di “decostruzione” culturale di quella umanità che l’«antropo-poiesi» aveva faticosamente costruito, ossia il ripristino con la morte di quello stato naturale che gli uomini, con i loro interventi antropopoietici, avevano alterato.

Anche ciò che segue la putrefazione, ossia il processo di «mineralizzazione», presuppone una serie di atteggiamenti variabili a seconda del modo in cui si sceglie di relazionarsi con ciò che è sopravvissuto o si è scelto di conservare della materialità umana nel suo transitare dalla condizione biologica a quella minerale. Comportamenti che possono manifestarsi in modo estremamente eterogeneo anche all’interno della medesima cultura, per fattori dipendenti da differenze ideologiche, culturali, sociali ed economiche ma che non necessariamente prevedono soluzioni rituali volte alla conservazione dell’integrità e/o alla dissoluzione del cadavere. Per Remotti la classificazione dei comportamenti culturali conseguenti alla mineralizzazione dei resti del defunto prevede essenzialmente quattro «soluzioni» possibili: «integrità», «frammentazione», «dissoluzione con resti», «dissoluzione senza resti». Un processo nel corso del quale, ove non sia possibile preservare l’integrità del defunto, può verificarsi anche una sostituzione della materialità corporea con un suo surrogato simbolico o con la preservazione di una sua parte specifica come, ad esempio, la mascella degli «ómwami» baNande o le reliquie dei santi cristiani. Questo nel caso in cui prevalga l’intenzionalità di preservare dei resti, poiché la «tanatopolitica» può presupporre anche processi intenzionali di dissoluzione dei corpi e, con essi, della memoria dei defunti, attraverso forme di discriminazione che, negli ultimi anni, anche l’archeologia ha cominciato a riscoprire, dando luogo a quelle forme sovente definite di «deviant burial», nelle quali la «violenza» (da contrapporre, per Remotti, alla «valorizzazione») si sostituisce al rito, semplicemente negandone e/o alterandone l’essenza rispetto alle consuetudini di una determinata cultura.

Ma, come evidenzia Remotti, quest’ultimo aspetto è parimenti relativo e ciò che rimane di fondo è sempre l’idea della metamorfosi e della trasformazione, anche quando sull’altro piatto della bilancia non vi è un qualcosa di concreto, ma un semplice «nulla», carico, tuttavia, di valori culturali, in quanto elemento di equilibrio o di ripristino (e accettazione) della condizione naturale di partenza:

«Sono molte le destinazioni e gli esiti dei processi Tmm: spiriti e reliquie, antenati e beni culturali (monumenti, utensili o strumenti culturali), realtà naturali (alberi e bananeti [...]) o entità soprannaturali. In tutte queste trasformazioni c’è sempre, inevitabilmente, la componente dello “scomparire”, combinata con dosaggi variabili con la componente del “rimanere”. Ma tra gli esiti possibili delle trasformazioni Tmm non dobbiamo dimenticare il “nulla”, un esito in cui lo “scomparire” sovrasta nettamente il “rimanere”. [...] Si tratta [...] di una nullificazione voluta, culturalmente decisa: un modo di “disfare umanità” culturalmente condiviso e proprio per questo umanamente accettabile e accettato. [...] Sarebbe un grave errore pensare che la cultura delle modalità e delle tecniche Tmm sia sempre tesa alla “memoria”, alla conservazione, al “rimanere”; essa fa posto, in misure diverse, allo “scomparire” e all’“oblio”. [...] Il “diritto all’oblio”, il “diritto alla scomparsa” totale e definitiva, può essere in effetti interpretato come una soluzione consapevole e culturalmente accettata: non solo come un addio definitivo da parte dei sopravvissuti alla persona deceduta, ma anche come un congedo della cultura da se stessa, una rinuncia alle sue pretese di prolungare dopo la morte la volontà di intervento, un riconoscimento dell’impotenza e delle velleità delle proprie “finzioni”, un accettazione del nulla e della propria dissoluzione nella natura. Si può fare cultura (coltivare pensieri ed emozioni) su questa dissoluzione, sulla fine della persona e insieme della cultura.» (Remotti 2006a, pp. 30-31).

 

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